PRESENTAZIONE DI MARCELLO CARLINO

 

Sono “chicche” straordinarie, di fascino grande, è certo. Oggetti che irraggiano il gratuito piacere e la nobilissima liberalità, oggi pressoché introvabili, dell’omaggio ospitale e del dono. Oggetti da “tenere”, da assaporare piano piano, lato per lato e pagina che si volta dopo pagina, con la vista e con il tatto.

Sono però, e soprattutto, oggetti da leggere, come è dei migliori libri d’artista e se per lettura si intende un percorso, articolato e avventuroso, ma corroborante più che un complesso vitaminico, composto di intersezioni, di intermodulazioni, di reciprocità lievitanti; e se la lettura corrisponde ad una esperienza intellettuale, altamente remunerativa, che chiama all’appello ed “esprime”, costruisce e consolida la personalità intera del lettore, del cittadino-lettore, nel senso che indicava e rivendicava Benjamin, sottolineando le virtù del leggere a fronte del nominare. E se leggere, infine, non s’arresta ai frammenti di verbalità, di sicuro rilievo e di significativa appartenenza, rievocati e fatti riemergere. I quali nel libro di Antonio Baglivo e nel libro di Cosimo Budetta, due libri d’artista di notevolissimo spessore, sono tratti dagli Epigrammi ferraresi di Elio Pagliarani.

Frammenti sparsi, affioranti frammezzo a ordinate scaglie o losanghe di forma-colore disposte in varie sequenze, nell’opera di Cosimo Budetta; un unico frammento, smembrato in due tavole consecutive e assunto a base di variazioni di figure come in una fuga musicale, nell’opera di Antonio Baglivo: in un caso e nell’altro la parola svolge la funzione di nucleo generativo delle immagini di linea-colore e al contempo le immagini di linea-colore svolgono un mandato di interpretazione, di esposizione di ragioni fondanti della parola e quindi, a loro turno, interattivamente, si rendono strumenti e metodi di generazione di parole ulteriori, di parole non scritte, di parole come “mentali”, in un ciclo ininterrotto a cui si presta l’energia rinnovabile, sicura e ottimamente produttiva, di un libero incontro dei linguaggi, così salvati dall’appiattimento funzionale, e quindi dall’esproprio, che ad essi riserva la nostra assordante, decerebrata civiltà dello spettacolo. Un ciclo ininterrotto che mostra affinità e pertinenza marcate ed elegge domicilio presso la migliore arte concettuale, la quale coincide con la linea di ricerca più accreditata negli ultimi decenni e rappresenta davvero un modello esportato – un modello tuttora esportabile, io credo – nella stessa letteratura sperimentale e d’avanguardia, che spesso s’è trovata a rielaborarlo o a riprenderne le motivazioni profonde.

Interpretazione, dicevamo: per il fatto stesso di prelevare quei lacerti frastici e quelli soltanto, il meccanismo linguistico delle immagini visive negli “ipertesti” di Baglivo e Budetta opera una scelta, propone un indirizzo e un orientamento di decrittazione, accentua una lettura dell’ipotesto letterario come aggregato o deriva di frantumi, come percorso alterno e discinetico intervallato da silenzi, come materiale ridistribuibile secondo altre logiche combinatorie, come lampeggiante eiezione di erratiche e irose masse semantiche quando calde di un vulcanismo recente quando raffreddate dal secolare lavorio del tempo.

E dunque esposizione delle ragioni fondanti, aggiungevamo: il gioco delle configurazioni astratte accese dal colore, ora schierate in diagonale, ora tangenti tanto da costituire schidionate o stringhe orizzontali, ora compatte, ora attraversate da varchi da cui rispunta il sommerso verbale, segna la dialettica del rivelare e del nascondere, del dire col parlare e col tacere – e per risalite da abissi temporali o per effusive e argomentanti esondazioni spaziali – che connota istituzionalmente ogni testo e qualifica in particolare il testo qui, il primo e il secondo che si incontrano per farsi “uno” in progress; e rileva, nel riflesso dell’altalena di evenienze improvvise e di reiterazioni seriali, il combinato di caos e di geometria, di decontestualizzazioni e di ricontestualizzazioni che accompagna e ritma un libro costruito sulle regole e sui capricci giocosamente assecondati, sull’ordine e sul caso delle citazioni.

E ri-generazione, dicevamo, che in un ciclo ininterrotto apporta ricchi e corposi contributi di prolungamento, di approfondimento e di sviluppo ai processi generativi innescati dalla parola: infatti i graffiti grigio-lavagna, riportati e scavati sulla pagina per memoria di collage, che, a tratti informi a tratti zoomorfi e antropomorfi, navigano nel bianco del foglio e quasi allestiscono un catalogo fluttuante di figure possibili dell’essere, antichissime e nuove, in continuità fra loro e tuttavia ciascuna autonoma, così che rivendica la propria identità e la propria libertà, il profilo che è suo: e il colore di rombi e di quadrati che s’aggiunge e svaria come recando testimonianza di un’altra soggettività che viene attivata e di una opportunità di riuso che è messa in movimento, concedendosi licenza di costituire legante, di rivelare, di campire la superficie, di intervenire per spostamento e per condensazione, prerogative queste che la scrittura verbo-visiva qui si attribuisce come fertili risorse sue proprie concesse in comodato dalla immaginazione e dall’intelligenza: tutto ciò si consegna a noi come un lascito profittevole. E come un rilancio dei tesori di conoscenza e di umanità posti in palio da una buona intertestualità.

Pagliarani negli Epigrammi ferraresi ha lavorato su Savonarola; Baglivo e Budetta coi loro libri d’artista hanno lavorato di buona lena intertestuale e rigenerativa sul libro di citazioni che Pagliarani ha composto rigenerando frammenti savonaroliani. Ora sta a un lettore meritevole e che intravveda le potenzialità racchiuse nel suo atto di collaborazione, che voglia “leggere” come Benjamin auspicava, sfruttare l’energia rinnovabile, buona e salutare, di una interazione che prosegue, di un ciclo che continua di positivo accrescimento di vitalità.

                                                                                                 Marcello Carlino